sabato 5 luglio 2008

Guglielmo Zanetta: Abbiamo bisogno di una Sinistra unita


Non vediamo altra strada percorribile. Abbiamo bisogno di una sinistra unita, abbiamo bisogno di un programma credibile che tocca la testa i sentimenti e il ventre molle del nostro paese, abbiamo bisogno di democrazia, abbiamo bisogno di SINISTRA e basta. Abbiamo bisogno di sinistra con “un programma” che abbia un' anima alternativa, per far partecipare le forze progressiste ed i movimenti del nostro paese. Che punti a riequi¬librare redditi sempre più divaricati fra ceti sociali ed aree del paese. Che assicuri servizi universali accessibili e di alta qualità. Che sposti grandi risor¬se verso il lavoro, lo sviluppo sostenibile, la qualificazione del welfare, la scuola, la cultura, la ricerca. Che affronti con forza i vecchi e i nuovi problemi della moralità pubblica.
Va costruito un rapporto tra la sinistra e quella generazione politica che ha dato voce a una speranza di rinnovamento che ricorda ciò che è accaduto dopo il 1968 : i movimenti.


E' sempre più urgente concentrare il lavoro sull'elaborazione di un programma che sappia parlare a movimenti e forze sociali. La nostra assemblea si apre in una situazione politica che è drammaticamente cambiata rispetto a pochi mesi fa.
Prodi ha perso e la sinistra è sparita, a questo punto bisogna pur chiedersi quanto reggerà un sistema politico che sul lato destro vede crescere il sovversivismo del partito al governo con le leggi ad personam, mentre al centro il PD sta arrancando, vicini ormai alla sindrome dell’Aventino; dal nostro lato stenta ad emergere quella nuova aggregazione unitaria di sinistra in mancanza della quale la crisi italiana può precipitare verso esiti imprevedibili.

Quando parliamo della debolezza del Paese è anche di noi che dobbiamo parlare. A ben vedere sta qui la risposta più forte a chi - giustamente - si preoccupa del futuro della sinistra e del suo ruolo storico. È dalla novità della situazione storica che bisogna partire, essendo essa che c’impone la necessità (e al tempo stesso ci offre l'opportunità) di assumere una più alta responsabilità verso il paese.
Il nodo è questo. Da un lato è tempo di affermare senza ambiguità e retropensieri che tutta la situazione richiede, dopo i recenti disastri elettorali e del “tutto mercato” non meno ma più potere politico e quindi non meno ma più forti strutture capaci, come i vecchi partiti, di coinvolgere i cittadini nella vita pubblica e di restituire a loro diritti uguali e la possibilità di organizzarsi, di decidere, di contare che, questo spazio esiste tutto intero perché è ovvio che una lunga storia di divisioni feroci non si chiude semplicemente chiedendo gli uni agli altri di “fare passi indietro”.

Dovremmo chiedere a tutti noi di fare quel grande passo avanti che consiste nel dare risposta a una “crisi italiana”, sulla cui natura e gravità non è vero che siamo tutti d'accordo.
Questo è il punto. Noi siamo di fronte ad un nodo storico. Perché si tratta di una crisi della sinistra inedita che, non si misura con i numeri delle statistiche e che è difficilmente leggibile con le culture di cui disponiamo: né con le vecchie culture “classiste” ma nemmeno con la vulgata riformista appresa a Londra o nelle università americane. La lotta di classe c’è, l’abbiamo persa, l’ha vinta il capitalismo.
Bisognerebbe riflettere piuttosto sulla storia d'Italia e domandarsi a che punto è arrivato il distacco da un’idea nazionale di quella intellettualità di massa (politici compresi) che dovrebbe rappresentare “l'armatura flessibile” del Paese, il suo cemento.

Questa è la crisi che, sta anche in casa nostra. Essa riguarda il modo d’essere complessivo del Paese, come dimostra l’estrema difficoltà perfino a pensare il nostro passato e quindi l'incerta idea che gli italiani hanno di sé e delle ragioni del loro stare insieme. In più sono venute meno le vecchie basi strutturali (per esempio lo Stato centralistico, l'economia mista, la banca pubblica, il vecchio compromesso tra il Nord che produce e il Sud che consuma ma fornendo al Nord risparmio, mano d'opera a basso costo e un grande mercato protetto, l’incessante emigrazione e la trasmigrazione di milioni di persone dal sud verso il nord del mondo), e vengono a mancare anche le vecchie basi geo-politiche e geo-economiche. Di fatto le condizioni storiche grazie alle quali ci siamo sviluppati nel dopoguerra diventando un Paese “ricco” e una potenza mondiale.

Il Paese si è seduto ed è così difficile difendere ciò che resta del nostro apparato industriale. Non si capisce più che posto abbiamo nella divisione internazionale del lavoro, dato che ci siamo infilati in un vicolo cieco: non siamo più i produttori di beni di consumo, cioè delle cose che fornivamo noi a basso costo al vecchio mondo industriale e perso l'autobus delle nuove tecnologie per reggere alle sfide di un mondo nuovo, allargato, dove le merci a basso costo si producono in Cina, in India ed in tutto il sud est asiatico.

Si batte la globalizzazione economica, nuova forma di imperialismo (o meglio nuovo colonialismo e solo puro sfruttamento), con l’esportazione della globalizzazione dei diritti. La sinistra è chiamata a questa responsabilità, non solo in Italia.
È evidente che, con tutto il rispetto per le ricette certamente utili degli economisti, senza un grande disegno politico non si esce da questo vicolo cieco. Il declino non è un fatto economico. È l'impossibilità per una media potenza di scommettere sul futuro se non ha una politica estera, se - grazie al centro destra - non sa se la costruzione europea è il suo destino oppure se l'Italia sta in Europa in quanto vassallo degli Stati Uniti e quindi col compito di sabotarla.

Il declino, è la rinuncia delle giovani coppie a fare figli perché i servizi sociali sono smantellati, è lo scarso livello del capitale umano perché la strada imboccata è quella dell'evasione fiscale, del lavoro precario e dell'arte di arrangiarsi.
Questa è la crisi italiana. È il disperato bisogno del Paese di avere una guida e la mancanza di un’idea nazionale. Di qui dovrebbe partire la nostra assemblea e parlare a tutta la sinistra italiana. Non dalle formule ma dalla necessità di contribuire alla costruzione di una forza che per la sua consistenza e la sua credibilità sia in grado di sciogliere la stridente contraddizione tra un grande patrimonio sociale e culturale, fatto di risorse e di valori quali solo poche regioni del mondo possiedono, e una tale mancanza di fiducia nel futuro per cui il Paese si è seduto, non rischia, non intraprende, non fa figli, dissipando così un immenso patrimonio di lavoro e di capacità imprenditoriali.

Per fare questo noi non dobbiamo buttare a mare quel grande patrimonio politico e quello straordinario solco morale e intellettuale grazie al quale il socialismo e il nostro comunismo hanno segnato la storia d'Italia e d'Europa. È davvero stupido pensare di sostituire tutto questo con una sorta di grande lista civica, oppure inventare partiti senza radici.
Sarebbe però assurdo negare la necessità e l'urgenza di “andare oltre” i confini del socialismo e del riformismo novecentesco, ma questo non può sfociare nel conformismo o nel radicalismo. E perciò è giunto il tempo di incontrare altre culture e altri riformismi, altri socialismi per contaminarci culturalmente e per dar vita a una vera, grande alleanza strategica, è tempo di chiamare alla lotta in Europa le grandi culture: quella nostra, come quella socialdemocratica, la cristiana, come i diversi amici della libertà e della dignità dell'uomo?

Il dialogo si fa a questa altezza. Non si fa al ribasso ma rendendo esplicita la posta in gioco.



Abbiamo bisogno di Democrazia.

Che cosa resta della nostra democrazia?. Qualsiasi manuale di diritto costituzionale c'insegna che la democrazia è “un'organizzazione interna dello stato secondo cui il potere politico emana dal popolo ed è esercitato dal popolo - un'organizzazione che consente al popolo governato di governare a sua volta per il tramite dei propri rappresentanti eletti”.
Accettare definizioni come questa, di una pertinenza al limite delle scienze esatte, in una trasposizione alla nostra esperienza di vita, equivarrebbe a non tener conto della infinita gradualità di condizioni patologiche di fronte alle quali si può trovare il nostro corpo in qualsiasi momento del tempo. In altri termini: il fatto che la democrazia possa essere definita con grande precisione non significa che funzioni nella realtà. Attenzione non stiamo sostituendo la vecchia burocrazia della prima repubblica con la nuova burocrazia degli amministratori, delle liste personali, del culto della personalità, roba tardo 800, altro che “innovazione” è solo “conservazione” o meglio ancora “smantellamenti” e ritorno alla società medioevale. Un rapido excursus attraverso la storia delle idee politiche ci porta a quattro riflessioni spesso sbrigativamente accantonate, con la scusa che il mondo cambia. Perché le istanze del potere politico tentano di distogliere la nostra attenzione da un fatto evidente:

- all'interno stesso del meccanismo elettorale, si trovano in conflitto una scelta politica rappresentata dal voto e un'abdicazione civica, così vale anche per i partiti;

- non è forse vero che, nel preciso momento in cui la scheda è introdotta nell'urna, (oppure sono eletti gli organismi di un partito) l'elettore( o l’iscritto) trasferisce in mani terze, senza alcuna contropartita se non le promesse intese durante la campagna elettorale (o i congressi), quella parte di potere politico che possedeva fino allora in quanto membro della comunità di cittadini o di militanti del partito?;

- non è forse vero che quando il governo di questi “eletti”, ” istituzioni o partito” in realtà poi tutti i loro errori ri-cadono sulle spalle degli elettore/o degli iscritti, e nessuno paga?;

- Restituire ai cittadini la democrazia e la partecipazioni alle decisioni, deve essere la base del nostro programma e della nostra proposta.

E ai nostri giorni è il premio Nobel per l’economia J. Stiglitz a definire il problema, (“The roaring fineties”, New York, 2003). “ Nessuna innovazione della vita politica democratica è possibile se gli interessi privati dei grandi gruppi sono più importanti degli interessi della collettività, ovvero se di fronte agli interessi prevalenti di alcuni, i cittadini cessano di essere uguali”. Motivo di più per esaminare che cosa sia la nostra democrazia, quale sia la sua utilità, prima di pretendere - ossessione della nostra epoca - di renderla obbligatoria e universale. Pensiamo alle barbarie ed alle guerre del secolo scorso, sono bastati due proiettili per eliminare, J e R. Kennedy, Luter King ecc. due aerei per il crimine delle torri gemelle di NY. Non è stato sufficiente per destituire due ex amici dell’occidente quale Bin Landen e Sadan, il vecchio arsenale di fuoco degli USA in Afganistan ed in Iraq, decimando la popolazione civile inerme, quanti morti conteremo alla fina di questo delitto contro l’umanità, per l’esportazione della democrazia. Ricordiamoci che oggi nel mondo ci sono circa 70 guerre provinciali gestite indirettamente dal mondo occidentale, intento ad esportare la democrazia.

Questa caricatura di democrazia che, missionari di una nuova religione, cerchiamo d'imporre al resto del mondo, non è la democrazia.
Qualcuno ci dirà: ma le democrazie occidentali non sono basate sul censo e sul colore della pelle, e all'interno dell'urna il voto del cittadino ricco o di pelle chiara conta esattamente quanto quello del cittadino povero o di pelle più scura. A costo di raffreddare questi entusiasmi, diremo che le realtà brutali del mondo in cui viviamo rendono ridicolo questo quadro idilliaco, e che, in un modo o nell'altro, finiremo per ritrovarci con un corpo autoritario dissimulato sotto i più begli ornamenti della democrazia. E così, il diritto di voto, espressione di una volontà politica, è nel contempo un atto di rinunzia a quella stessa volontà, in quanto l'elettore la delega ad un candidato. Almeno per una parte della popolazione, l'atto di votare è una forma di rinunzia temporanea ad un'azione politica personale, tenuta in sordina sino alle elezioni successive, momento in cui i meccanismi di delega torneranno al punto di partenza, per riattivare lo stesso processo.

Ecco bisognerebbe poter rivoltare questo processo. Vorremmo che la delega sia restituita ad uomini e donne. Questo uno dei punti della nostra battaglia politica. Questa rinuncia può costituire, per la minoranza eletta, il primo passo di un meccanismo che, nonostante le vane speranze degli elettori spesso autorizza a perseguire obiettivi che non hanno nulla di democratico e che possono costituire un'autentica offesa ai cittadini e alla legge. Molte volte la delega è scippata, in linea di principio, a nessuno verrebbe in mente di eleggere come rappresentanti nelle istituzioni degli individui corrotti, anche se sappiamo per triste esperienza che le alte sfere del potere a livello sia nazionale che internazionale, talvolta sono occupate da criminali o dai loro mandatari. Però è anche vero che con le ultime elezione questo è avvenuto in Italia: inquisiti, al governo i Piduisti, in parlamento i grandi elettori delle mafie. L'esperienza conferma che una democrazia politica che non si basa su una democrazia economica e culturale è di ben scarsa utilità. Disprezzata e relegata nel dimenticatoio delle formule arcaiche, l'idea di una democrazia economica ha ceduto il posto ad un mercato trionfante fino all'oscenità. E all'idea di una democrazia culturale si è sostituita quella, non meno oscena, di una massificazione industriale delle culture, uno pseudo miscuglio di culture e di classe di cui ci si serve per mascherare il predominio di una sola di esse. Noi crediamo di aver fatto dei passi avanti, ma in realtà regrediamo.

Una democrazia autentica, che come un sole inondasse della sua luce tutti i cittadini, dovrebbe cominciare da quello che abbiamo tutti sottomano, cioè il paese in cui nasciamo, la società in cui viviamo, la strada in cui abitiamo, i cittadini che incontriamo ed i loro bisogni. Se questa condizione non viene rispettata - e non lo è - vengono inficiati tutti i ragionamenti precedenti, vale a dire il fondamento teorico e il funzionamento empirico del sistema e della democrazia.

Oggi in Italia, partiamo da un dato agghiacciante e semplice: dall 2003 duemilioni trecentotrentamila novecentosettanta perso¬ne “ hanno difficoltà ad acquistare cibo” ed il numero cresce di anno in anno. In Italia, non in Africa; oltre 2.330.970 persone sono, quindi, povere. Al di sotto dei livelli della dignitosa sopravvivenza minima. Metà di questi “senza cibo” (quanti di loro sono anche “senza tetto”, visto che, nelle grandi città, un appartamento minimo, 50mq, costa non meno di 600-800 euro al mese?) non riescono a mangiare.

In Italia, membro del ricco Occidente, della saggia Europa, dei fantastici Paesi più industrializzati, non tutti hanno il necessario. Quale democrazia per i nuovi emarginati? Se la democrazia è veramente il governo del popolo, per il popolo e da parte del popolo, non ci sarebbe nulla da discutere, ma le cose non stanno così. E soltanto uno spirito cinico si azzarderebbe ad affermare che tutto va per il meglio nel mondo in cui viviamo. Si dice anche che la democrazia sia il sistema politico meno peggiore, e nessuno fa osservare che questa accettazione rassegnata di un modello che si contenta di essere “ il meno peggiore ” può frenare a una ricerca verso qualcosa di “ possibile e di migliore “.

Lo sappiamo che, il potere democratico per sua natura è sempre provvisorio. Dipende dalla stabilità delle elezioni, (il 2008 ne è la prova) dal flusso delle ideologie, e dagli interessi di classe. Si può vedere in lui una sorta di barometro organico che registra le variazioni della volontà politica della società. Ma, in maniera flagrante, sono innumerevoli le alternanze politiche apparentemente radicali, che hanno come conseguenza il cambiamento di governo, ma che non sono poi accompagnate da quelle trasformazioni sociali, economiche e culturale fondamentali che lasciava supporre il responso elettorale.

Parliamoci chiaro: i cittadini non hanno eletto i loro governi perché questi li “ offrano “ al mercato. Ma il mercato condiziona i governi affinché questi gli “ offrano “ i loro cittadini, materia pregiata per la nostra società dei consumi.
Nel nostro tempo di globalizzazione liberista, il mercato è lo strumento per antonomasia dell'unico potere degno di tale nome, il potere economico e finanziario. Questo non è democratico perché non è stato eletto dal popolo, non è gestito dal popolo e soprattutto perché non si prefigge come finalità il bene del popolo. Impossibile negare l'evidenza: la massa di poveri chiamata a votare non è mai chiamata a governare ma solo a soccombere nella guerra quotidiana, dell’inflazione, della disoccupazione, del lavoro precario, in pratica combatte giorno per giorno per poter arrivare alla fine del mese, per sopravvivere.

Nell'ipotesi di un governo formato dai poveri, in cui questi rappresentassero la maggioranza, come ha immaginato Aristotele nella sua “Politica”, essi non disporrebbero dei mezzi necessari a modificare l'organizzazione dell'universo dei ricchi che li dominano, li sorvegliano e li soffocano, ecco noi abbiamo una missione quello di dare gli strumenti a questi cittadini per poter governare, cos’è questo se non socialismo.

La pretesa democrazia occidentale è entrata in una fase di trasformazione retrograda che non è più in grado di fermare e le cui conseguenze prevedibili saranno la sua stessa negazione. Non c'è alcun bisogno che qualcuno si assuma la responsabilità di liquidarla, è essa stessa a suicidarsi ogni giorno che passa.
Che fare? Riformarla?

Sappiamo che riformare, come ha scritto con tanta eloquenza l'autore del Gattopardo , altro non è se non cambiare quello che è necessario perché non cambi nulla.

Ci domandiamo ha questa funzione la deriva riformista della sinistra italiana? Rinnovarla? A quale modello per il futuro dobbiamo guardare?. O, a quale epoca del passato sufficientemente democratica si vorrebbe ritornare, e partire da lì per ricostruire con nuovi/vecchi materiali, la democrazia Allora noi diciamo: rimettiamola in discussione. Se non troveremo un mezzo di re-inventarla, non si perderà soltanto la democrazia, ma anche la speranza di vedere un giorno i diritti umani rispettati su questo pianeta. Sarebbe questo il fallimento più clamoroso del nostro tempo, il segnale di un tradimento che segnerebbe per sempre l'umanità.

Allora… Ripartiamo dal quotidiano, dai bisogni dei cittadini. L’assemblea è una buona occasione per discutere, per restituire al nostro paese la democrazia, la dignità intellettuale e morale e, l'energia per uscire dalla spirale negativa che ha portato al degrado tutte le istituzioni culturali,politiche e l’esclusione del parlamento della sinistra. La differenza, cioè, tra una visione minimalista che prende atto della struttura dei bisogni e il ritorno, invece, alla grande politica in cui la posta in gioco è sempre il problema del senso della vita collettiva e individuale.

Sappiamo bene che queste parole sono destinate a suscitare l''ironia di quanti praticano il disincanto come terapia d’addomesticamento delle passioni sociali, ma siamo convinti che senza l'investimento affettivo sulla prospettiva di un futuro diverso una formazione sociale diventi prima un condominio rissoso e poi una clinica psichiatrica, d’individui chiusi in una solitudine disperata.

Sotto questo profilo, chi pensa di battere il centro destra con la contestazione del mancato mantenimento delle promesse o con l'analisi delle finanziarie non ha capito il carattere profondamente politico e innovativo della destra italiana e del suo carattere devastante proprio perché capace di suscitare consenso di massa e sintesi sociale, esasperando l’egoismo aggressivo, il razzismo e l'individualismo possessivo della tarda modernità.

Veniamo, dunque, al punto della ricerca dei principi e delle idee che possono istituire una nuova distinzione tra la sinistra, il centro e la destra, per riconquistare la fiducia dei cittadini, pertanto punti di riferimento per nuove idee e per un programma per parlare alle persone e riavere il consenso per divenire forza di governo.

- La prima differenza è la concezione della democrazia e del suo rapporto con i diritti umani universali. La democrazia di cui oggi si parla è diventata soltanto una tecnica opportunistica per l'allocazione della risorsa “consenso”, e, come tutte le tecniche, esportabile senza alcun riferimento alle identità culturali. Viceversa, siamo convinti che la democrazia sia una forma di vita orientata allo sviluppo dell'autogoverno sociale attraverso la partecipazione attiva di tutti i cittadini alle decisioni. La democrazia istituisce la distinzione tra pubblico e privato. I cittadini vogliono sapere dove vanno a finire i loro soldi. La democrazia non è perciò dissociabile dalla ricerca della verità, dall''informazione sui fatti su cui occorre prender partito, e suoi nemici principali sono la menzogna, il sospetto, la manipolazione e la disinformazione.

- La seconda differenza è, perciò, la politica estera, che oggi significa niente più e niente meno della guerra al terrorismo proclamata da Bush, Blair/Brown, Sarkozy e Berlusconi e dei rapporti tra Europa e Stati Uniti, relativamente alle relazioni con le altre culture e civiltà. Anche in questo campo è decisiva la differenza tra inganno e verità. Sull'Iraq abbiamo assistito all''apologia della menzogna di stato e all'ipocrisia della missione umanitaria, senza dare ai cittadini italiani una giusta rappresentazione degli enormi interessi di potere economico e di dominio mondiale che hanno spinto Bush a intraprendere questa sciagurata iniziativa. Sono stati impediti, infatti, ogni tentativo di comprensione delle ragioni del mondo islamico, e persino la pietà e la denuncia delle migliaia di morti civili, donne, vecchi e bambini, uccisi dalle bombe intelligenti non solo delle armate Usa. È vergognoso che in un paese democratico chi, pur condannando duramente la ferocia terroristica, esprime indignazione e condanna anche le stragi di civili Iracheni, Afgani, sia escluso dalla comunità civile e accusato di complicità con il nemico. Guernica, le bombe atomiche sul Giappone, i campi di concentramento ci avrebbero dovuto lasciare nel nostro DNA l’indignazione per la morte.

- La terza differenza riguarda la tutela della vita e dell'ambiente contro le forme d’egemonia scientifiche e tecnologiche che tendono a distruggere le specificità delle culture e le differenze fra le identità sociali. Il rapporto tra tecnica e vita non è solo una questione etica, ma eminentemente politica, perché si tratta di scegliere fra un''omologazione sostanzialmente biologista, fondata sulla presunta neutralità della tecnica applicata al vivente, e una visione “umanistica” delle diverse società. Solo la grande politica può governare la tecnica senza far assoggettare l'umanità al sistema tecnico attualmente legato agli interessi economici dei grandi poteri.

Si condividano o no queste considerazioni, in ogni caso è certo che se si vuol battere l'iperpoliticità del messaggio apparentemente impolitico della destra ed in particolare di Berlusconi, bisogna alzare il livello del dibattito e riportarlo sui temi che oggi possono definire il terreno della Grande Politica. Il PD non centra è in parte omologato a quel modello e va recuperato ad un nuovo dialogo con la sinistra.. Se si vuole, cioè, battere non un modo di amministrare ma una visione della società e del modo. È possibile ancora, nell'epoca della globalizzazione, parlare di grande politica o bisogna rassegnarsi al trionfo dell'individualismo singolarizzato e impersonale nella forma dell'edonismo consumistico e garantito dal sistema-apparato tecnico-economico? Questo è il vero terreno sul quale si gioca la sopravvivenza della sinistra. Purtroppo ciò a cui si assiste oggi è invece principalmente il balletto dei calcoli, come se il senso del nostro agire fosse soltanto la crescita del Pil e la diversa competenza professionale dei professori d’economia.

La confederazione, la federazione o la grande alleanza di sinistra sono in realtà parole vuote se designano mere aggregazioni senza idee forti, valori guida ed al centro della nostra discussione non ci sia la persona.
Di questo occorre discutere. Da qui bisogna incominciare per ricostruire la SINISTRA e la democrazia nel nostro paese.
E noi non dispiacerebbe se il nuovo partito della sinistra si chiamasse SINISTRA e basta.

* Componente del coordinamento estero di Sinistra Democratica

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